lunedì 2 febbraio 2015

Il Jihad, la lotta interiore e la guerra santa


La parola araba ǧihād è ormai entrata da molto tempo nel nostro vocabolario; in questi ultimi tempi la sentiamo spesso attraverso telegiornali o talk show, la leggiamo su magazine e libri e ogni volta evoca in noi evidenti e comprensibili sensazioni di paura e anche di confusione, di smarrimento verso qualcosa che non riusciamo a spiegarci fino in fondo, un pericolo che, forse, abbiamo sottovalutato.
Il ǧihād (termine maschile) viene associato esclusivamente a “guerra santa” rafforzando l’aspetto militare e bellicoso del concetto ma, nello stesso tempo, oscurandone la complessità e le sfumature di significato che andrebbero, invece, evidenziate.
Ciò non è affatto strano, se teniamo conto non solo dei recenti casi di cronaca, ma soprattutto della storia delle relazioni tra Europa e Islam.
Eppure, se davvero vogliamo capire cosa sta accadendo oggi nel mondo, avere un’idea il più possibile chiara degli eventi, non possiamo fermarci qui. Dobbiamo leggere, chiedere spiegazioni, fare domande, andare sempre oltre senza pensare di saperne abbastanza. In una parola: informarci. (E questo non vale solo a proposito del ǧihād ).
In questo articolo cerchiamo di capire cos’è e come si è sviluppato il concetto di ǧihād seppur nei limiti di spazio concessi da un blog e, anche per questo, tenendo conto quanto di scritto sopra, ovvero… ci sarà sempre un angolo in cui non abbiamo ancora cercato, ci sarà sempre un libro che non abbiamo ancora letto e che “occhieggia” verso di noi dalla libreria. Ci sarà sempre qualcosa che ci sfugge e una porta che non abbiamo ancora aperto.
Perché indugiare, dunque?
Il significato
Il termine ǧihād, in arabo جهاد , si forma dalla radice ǧ-h-d, attraverso la quale si intende lo sforzo compiuto “sulla via di Dio” (in arabo fī sabīli llāhi; الله سبيل في). 
Solo per gli Sciiti è il sesto pilastro dell’Islam, insieme alla professione di fede (shahāda), la preghiera (ṣalāt), l’elemosina (zakāt), il digiuno durante il Ramaḍān (ṣawm) e il pellegrinaggio a La Mecca (ḥaǧǧ) (i cinque pilastri, come sappiamo, riconosciuti sia dai Sunniti che dagli Sciiti).
Fin qui il significato letterale. Veniamo all’interpretazione: con ǧihād, infatti, i musulmani si riferiscono sia a una battaglia vera e propria che a una lotta interiore.
L’interpretazione
Esistono due tipi di ǧihād: il grande ǧihād e il piccolo ǧihād.
Il primo è uno sforzo interiore, ovvero la lotta con se stessi per vincere le passioni terrene e diventare uomini migliori. Per dirla in termini molto moderni si tratta di uno sforzo per la “crescita personale” (al- ǧihād al-akbār, cioè “lo sforzo maggiore”). Questo è il significato originario di ǧihād. 
Il secondo, invece, è uno sforzo esteriore, in quanto fa riferimento alla guerra che, però, può avvenire solo in casi particolari (al- ǧihād al-aṣghār, cioè “lo sforzo minore”). 
Queste sono le due interpretazioni più importanti e diffuse dall’VIII secolo circa grazie alle dottrine sufi.
Soffermiamoci un momento sul piccolo ǧihād. Abbiamo visto il chiaro riferimento alla guerra,
ma dobbiamo tenere presente le diverse esegesi, molte delle quali ritengono che nel Corano non si parli di guerra offensiva, ma di difesa della comunità islamica.
Bausani, nel suo saggio “L’Islam” (Garzanti, 2002) chiarisce che l’obbligo di difendere la comunità islamica è affidato a tutti i credenti che possano usare un’arma, ma solo in caso di aggressione. Comunque non tutti gli studiosi concordano con la definizione di “guerra difensiva”.
Su quest’ultima teoria, come vedremo, esistono delle ulteriori sfumature di significato.
Dunque, in generale, ci troviamo di fronte a due diverse concezioni di ǧihād: una riguarda l’impegno, la fatica per avvicinarsi ad Allah, l’altra è una lotta nell’accezione più comune, su un campo di battaglia.
Nel Corano esistono riferimenti a entrambe le interpretazioni, ma per chiarire meglio il concetto di ǧihād è necessario analizzare il contesto storico in cui questo si formò.
Guerra santa?
Una cosa è certa: ǧihād non è traducibile con “guerra santa”. Sono due concetti diversi figli di contesti e idee altrettanto differenti. Non solo: come ci spiega Gabriele Mandel nel saggio “Islam” (Electa, 2006) al-ḥarb al-muqaddasa, ovvero “guerra santa” (الحرب المقدسة) non compare mai nel Corano; l’espressione venne usata, per la prima volta, in una predica di Pietro l’Eremita nel 1096, cioè all’inizio della prima Crociata.
Per i primi musulmani e per lo stesso Maometto fare la guerra significava scontrarsi con quanti erano ostili all’Islam e, soprattutto, con i politeisti che abitavano La Mecca. Questo è il contesto puramente storico in cui nacque la religione islamica e si rafforzò il “suo istinto di sopravvivenza”.
Guerra, dunque, era sinonimo di conquista, di sottomissione e di potere politico. Ovviamente guidare una comunità voleva dire anche sviluppare una fondamentale inclinazione per la diplomazia, che consentì ai musulmani di promuovere la pace attraverso patti stipulati con ebrei e cristiani, ma anche con gli stessi meccani (ricordiamoci sempre di essere su una specie di “campo minato” in cui i termini possono risultare troppo stretti per accogliere sfumature di significato o, ancora più in grande, strategie politiche per cui conquiste e diplomazia non sono necessariamente antitetici; certo bisogna tenere conto del fatto che gli accordi, spesso, sono a vantaggio della parte più forte o vittoriosa e possono essere rotti, trasgrediti, dunque generare nuove battaglie in cui la pace e il patto vengono rinegoziati).
Frutto dell’arte diplomatica fu anche la dhimma, ovvero il particolare status concesso, tramite un accordo di protezione, dai musulmani alla “Gente del Libro” nei territori conquistati (ebrei e cristiani in un primo momento, ma tale status venne, in seguito, accordato anche ai fedeli di altre confessioni).
Rammentiamo, comunque, che stiamo parlando di accordi di natura politica, che mutarono nel tempo e, nel caso della dhimma, anche in base ai luoghi in cui vennero applicati e alle strategie diplomatiche dei sovrani in carica.
C’è, poi, un altro fatto di cui dobbiamo tenere conto quando parliamo di ǧihād e contesto storico: in quale momento avvennero le rivelazioni contenenti questo termine. Dove si trovava il Profeta, a La Mecca o a Medina?
Nelle sure meccane, secondo quanto spiegato da molti studiosi musulmani e non, il ǧihād rappresenta unicamente lo sforzo interiore. In quelle medinesi, invece, è più evidente il significato di lotta militare contro La Mecca associata a tale termine.
E’ chiaro, quindi, che il concetto di ǧihād ha bisogno, per essere spiegato, del riferimento al contesto storico in cui è nato. Detto questo la definizione di “lotta difensiva” può essere e, di fatto, viene messa in discussione; combattere contro quelli che sono considerati infedeli, infatti, può giustificare l’attacco, presentato come una battaglia per “difendere” la sopravvivenza dell’Islam. Il Corano annovera tali lotte tra i dovere di ogni musulmano.
La Casa dell’Islam
Le prime conquiste islamiche avevano uno scopo ben preciso: l’espansione, che non presupponeva la conversione. I primi musulmani, infatti, tenevano al carattere “arabo” della loro religione e la dhimma era più che sufficiente per regolare i rapporti di convivenza tra loro e i fedeli delle altre religioni.
Questo stato di cose, dato il livello espansionistico raggiunto e l’incontro con altri popoli e differenti usi, non durò a lungo. Lo sviluppo del diritto musulmano e della società islamica portò a scindere, in maniera netta e inequivocabile, il mondo allora conosciuto in due grandi “blocchi”: dar al-Islām e dar al-ḥarb, ovvero la “Casa dell’Islam” e la “Casa della Guerra”, la terra dei musulmani e la terra abitata dagli infedeli.
Questa separazione non marcava solo dei confini fisici e religiosi ma, in qualche modo, rendeva la parte di mondo non islamizzata una sorta di terra da conquistare e assoggettare, in cui compiere razzie e, nello stesso tempo, portare l’Islam.
Si usava pianificare almeno un ǧihād ogni anno e, in caso di concretizzazione e vittoria, i popoli conquistati avevano due possibilità: convertirsi, oppure essere fatti schiavi. Come ci ricorda il teologo Hans Kung nel suo saggio “Islam” (Rizzoli, 2005), il concetto di ǧihād subì un progressivo declino durante la colonizzazione, per poi risorgere nel Novecento, radicalizzandosi a causa di nuove e più estreme interpretazioni coraniche.
Questa radicalizzazione ha consentito la nascita e l’inarrestabile ascesa di gruppi terroristici come al-Qa’ida, divenuto tristemente famoso dopo l’attacco alle Torri Gemelle dell’11 settembre 2001 o lo stesso Isis che miete vittime e orrore ogni giorno.

A questo punto ci chiediamo se sia possibile sconfiggere il terrorismo e in che modo.
E’ solo un’utopia pensare che possa esistere un dialogo tra cristiani e musulmani moderati e che possiamo lottare insieme affinché né l’odio né la prevaricazione abbiano la meglio?
Conclusione
Dialogare è possibile, costruire la pace è necessario, ma bisogna tenere in considerazione alcuni elementi, presentati in maniera esauriente, magistrale da Hans Kung e che condivido: per estirpare alla radice la piaga del terrorismo occorre investire più risorse nell’istruzione, nelle società e questo vale tanto per il mondo islamico quanto per quello occidentale.
Del resto il terrorismo prospera dove ci sono guerre, ignoranza, povertà, violenza, situazioni estremamente disagiate, che non favoriscono il pieno sviluppo del diritto alla libertà in ogni sua declinazione.
L’educazione, poi, si fonde con le altrettanto necessarie interpretazioni del Corano, le quali devono tenere conto del contesto storico in cui il messaggio divino è stato rivelato. C’è bisogno assoluto di riflessione e di critica, del dinamismo intellettuale che l’Islam, storicamente, conosce bene ed è l’esatto opposto della rigida, dogmatica accettazione perpetrata dagli estremisti. Lo sforzo interiore e anche quello esteriore, dal momento che, come abbiamo già detto, esso va contestualizzato nel periodo storico di riferimento, non devono essere un punto di partenza, una legittimazione o una giustificazione per chi vuole diventare un “martire”, un kamikaze, un assassino, per chi cova odio e vuole solo spargimento di sangue o manipolare gli altri per secondi fini. 

Al contrario; questo sforzo interiore è miglioramento di sé che nulla ha a che vedere con la distruzione e l'autodistruzione.
Da un punto di vista strettamente religioso, poi, il teologo evidenzia che secondo la fede islamica (e non solo, per chi crede) unicamente Dio può decidere della vita e della morte.
Il terrorismo fa paura, ma non possiamo e non dobbiamo lasciarci vincere. E' il momento, per musulmani e non, di svegliarsi.
Bibliografia
Bausani Alessandro, L’Islam, Garzanti, Milano 2002.
Mandel Gabriele, Islam, Mondadori Electa, Milano 2006.
Kung Hans, Islam, Rizzoli, Milano 2005.
Cook David, Storia del jihad. Da Maometto ai giorni nostri, Einaudi, Torino 2007.
Scarcia Amoretti Biancamaria, Tolleranza e guerra santa nell’Islam, Sansoni Scuola aperta, Firenze 1974.


Fonte immagini: Ansa e Wikipedia (La presa di Gerusalemme durante la prima Crociata; l'Arcangelo Gabriele rivela il messaggio divino a Maometto)

lunedì 26 gennaio 2015

Lettera Aperta

Zeynab Mohallim è una ragazza musulmana nata e cresciuta in Italia da padre musulmano e madre cristiana. E’ una mia grande amica, ma anche l’emblema di una giovane donna che crede nella pace e nella conoscenza.
 
Le sue parole, scritte proprio su Facebook subito dopo i terribili attentati a Parigi, mi hanno molto colpito. Per questo ho pensato di riportarle; si tratta di una lettera aperta schietta e decisa.
 
Vi lascio le sue parole e il suo pensiero, sperando che la difesa della libertà, il buonsenso, la serietà e la volontà di andare sempre oltre per scoprire ciò che ancora non sappiamo aiuti tutti, non importa la religione o la provenienza, a costruire un futuro basato davvero sulla concordia, sulla libertà appunto e sul rispetto reciproco di opinioni diverse, di identità differenti, senza alcun tentativo di prevaricazione.
 
“Il pensiero ha le ali. Nessuno può arrestare il suo volo” diceva Yussef Chahine e amo ricordare spesso queste parole. Il pensiero è libertà.
 

Cara Signora Ignoranza,
sei pregata di uscire dal nostro Paese e dal Mondo! Sei vecchia ormai di oltre 2015 anni! Esisti dai tempi in cui l'uomo ha messo piede sulla terra ed è giunta l'ora di finirla di generare figli “ignoranti e criminali” che seminano discordia sulla terra e commettono violenze contro i loro stessi fratelli “Umani”, generando guerre e terrore nel mondo da anni. E per cosa? Per farti vivere serena e nascosta, adagiata nel lusso sia in Oriente che in Occidente!
Sai bene che dalla tua nascita a oggi milioni di vittime hanno perso la vita a causa tua. Tu gioisci di questo, come del fatto che tanti altri non conoscono tutte le tue nefandezze, perché sei stata capace perfino di inquinare le parole, la comunicazione.
Le vittime sono tutte uguali, non importa la loro religione o il Paese in cui sono nate. Tutte avevano il diritto di vivere, perché la vita è sacra e non è certo un dono elargito da te, cara Signora!
Mi auguro un futuro migliore per le future generazioni che dovranno abitare questo mondo pieno di orrori e tragedie, un futuro in cui ognuno impari a pensare con la propria testa, liberamente. Il mondo è stufo di paura, angoscia e violenza.
La Speranza non può morire sotto le macerie che ti diverti a farle cadere addosso. Io credo nella Vita e nella Pace, come ci credeva mio padre che, purtroppo, non è riuscito a vederlo questo mondo migliore.
L’unica medicina è la Pace, l’unica cura la vera, sana informazione.
Zeynab Mohallim

giovedì 20 novembre 2014

Huffington Post (nuovi articoli)

Colgo l'occasione per segnalarvi, con questo post, l'apertura del mio blog dedicato al mondo arabo-islamico sull'Huffington Post.
 
Il primo articolo, uscito ieri, tocca un tema difficile, la vera e propria ondata di terrorismo che sta scuotendo il mondo.
 
Si parte dall'analisi dell'attentato alla sinagoga di Har Nof per poi cercare di capire quali siano le caratteristiche comuni ai principali gruppi terroristici islamici. Una di queste è proprio l'odio nei confronti dell'Occidente e, comunque, di chi ha un'idea religiosa e persino esistenziale diversa.
 
Da qui si tenta di analizzare la ragione per cui alcuni giovani europei e americani decidono di "arruolarsi" tra le fila di gruppi terroristici come l'Isis.

Il secondo articolo, appena uscito, è una riflessione sulle donne impegnate nella lotta contro l'Isis. Due esempi emblematici: la regina Rania di Giordania, con il suo appassionato discorso al Media Summit di Abu Dhabi e Monique, la donna che ha intrapreso un viaggio lungo e pericoloso per riportare a casa la figlia, volontaria proprio nell'Isis.

Il terzo, invece, si focalizza sull'importante insegnamento che potremmo trarre conoscendo la vita delle grandi donne arabe. Non dobbiamo perdere la nostra memoria storica, che va oltre la religione e la provenienza geografica. 

Se volete dire la vostra opinione, potete farlo nella sezione commenti posta di seguito agli articoli o anche in questo blog.
 
Sono tematiche sensibili, ma è giusto parlarne, trovare il punto da cui dialogare per capire, conoscere e informarci.
 

lunedì 29 settembre 2014

La tragica sorte di Samira e il coraggio di Mariam

Questo è un post particolare, dedicato all’attualità, in cui vengono analizzati due casi di cronaca che hanno per protagoniste due donne accomunate dall’intelligenza e dalla voglia di libertà.
 
Il primo, purtroppo, ha un finale drammatico. Il secondo, invece, è la storia di una sfida e di un riscatto.
 
Finora La Mano di Fatima non si era occupata di tali argomenti, privilegiando l’aspetto storico-filosofico della cultura arabo-islamica.
 
Da oggi, però, i due tipi di trattazione, storica e attuale, procederanno di pari passo e per un motivo molto semplice: non è possibile ignorare quanto sta accadendo in molte parti del mondo.
 
Il passato e il presente non sono due elementi completamente scissi tra loro, bensì concatenati. Per capire il secondo occorre conoscere il primo, ma non si può ignorare l’influenza di che è stato su ciò che viviamo oggi, che “è” in questo istante e “sarà” nei prossimi giorni, mesi e anni.
 
Per questo La Mano di Fatima non abbandona la sua “linea editoriale” ma, più semplicemente, la arricchisce, sperando di stimolare il pensiero personale prima di tutto, la formazione di un’opinione e, perché no, il dibattito sia qui, nei commenti, che sui social network.
 
 
La morte di Samira al-Nuaimy
 

La vicenda dell’avvocatessa Samira al-Nuaimy è una nuova dimostrazione di violenza e barbarie da parte dell’Isis, organizzazione jihadista che non rappresenta certo la linea di pensiero e di condotta dominante nell’Islam, né la religione islamica stessa. 

Lo stesso Barack Obama, di fronte all’assemblea Onu, ha sottolineato il fatto che il mondo debba schierarsi contro il terrorismo, non certo contro l’Islam; contro chi travisa e distorce il messaggio islamico, dunque.

La morte di Samira, un caso concreto di questa distorsione, sta facendo il giro del mondo proprio in queste ore e molte fonti autorevoli hanno riportato gli ultimi istanti di vita della vittima e ciò che ha dovuto subire.

Stando alle notizie giunte la donna, avvocato e attivista per i diritti umani, aveva pubblicato sui social network dei post in cui criticava l’Isis schierandosi, come sempre aveva fatto, a favore delle minoranze e delle donne.

Il 17 settembre è stata portata via dalla sua casa, dopo essersi rifiutata di ritrattare quanto scritto, sottoposta a tortura per cinque giorni e a un processo sommario durante il quale i jihadisti l’hanno accusata di apostasia e condannata a morte.

La sentenza è stata eseguita pubblicamente a Mosul il 22 settembre e il corpo dell’avvocatessa gettato sul ciglio di una strada. Alla famiglia di Samira non è stato neppure consentito di seppellire il corpo della loro congiunta.

A dare la notizia di questa morte tanto violenta quanto assurda è stato il responsabile Onu a Baghdad, Nikolay Mladevenov, benché non sia ancora stata chiarita la modalità della barbara esecuzione.

Sul quotidiano “La Stampa è stato riportato il commento di Zeid Ra’ad al-Hussein, che vi cito, rimandandovi alla sitografia in fondo all’articolo: “Questa orrenda esecuzione pubblica di una donna coraggiosa la cui unica arma erano le parole che usava per difendere i diritti umani smaschera l’ideologia fallimentare dell’Is e dei suoi alleati”.

Secondo un recente rapporto Onu, inoltre, tutte le donne istruite sarebbero a rischio tra l'Iraq e la Siria e i recenti fatti di cronaca, come i rapimenti, da parte dell’Isis, di studentesse vendute come schiave e costrette a convertirsi all’Islam, rendono queste parole ancora più concrete e inquietanti.
 
 
Il coraggio di Mariam al-Mansouri
 
Comanda un F-16, ha bombardato le postazioni dell’Isis in Siria, combatte contro il terrorismo, ha una laurea in letteratura inglese. Ed è la prima donna pilota dell’aviazione militare degli Emirati Arabi.

Mariam al-Mansouri, trentacinque anni, indossa il velo e contrasta i jihadisti; da notare, a tal proposito, il fatto che una cosa non esclude certo l’altra, contrariamente a ciò che ritengono alcuni. 

Mariam, inoltre, ci tiene a precisare che non vi è mai stato alcun trattamento di favore nei suoi confronti in quanto donna. In breve tempo è divenuta un simbolo di libertà, di indipendenza e di coraggio, attirandosi commenti entusiasti e perfino delle critiche sessiste.

In realtà non sono certo le battute sopra le righe l’episodio più spiacevole. Il Daily Mail ha

pubblicato, attraverso l’agenzia palestinese Wattan, una dura dichiarazione della famiglia di Mariam, una sorta di sentenza senza appello con cui il clan, che sostiene l’operato dell’Isis, ripudia la ragazza.

Vi riporto uno stralcio del comunicato, apparso sui principali giornali italiani e di cui troverete le fonti nella sitografia: “Noi, la famiglia Mansouri degli Emirati arabi uniti dichiariamo di ripudiare Mariam al Mansouri, così come chiunque prenda parte alla brutale aggressione internazionale contro il fraterno popolo siriano”.

A dire il vero non si sa ancora se questo messaggio sia autentico o meno e la stessa Mariam sostiene di essere incoraggiata dalla sua famiglia.

In una intervista rilasciata a “Deran al Watan” e citata da “Il Fatto Quotidiano” la giovane pilota lascia un messaggio che vorrei riportarvi e che, credo, racchiuda l’essenza di ogni nostra lotta, pubblica o privata che sia, di ogni obiettivo che tentiamo di raggiungere nonostante gli ostacoli che incontriamo sul nostro cammino.

A proposito della sua decisione di entrare in aviazione, infatti, Mariam ha spiegato che servire il suo Paese è un onore e questo desiderio di intraprendere un mestiere interessante e pericoloso al tempo stesso ha origine non solo nell’amore patriottico, ma anche nella voglia di conoscere e tentare di superare i limiti: “…Una sfida con se stessi che spinge a non smettere mai di imparare … Io sono molto fiera di far parte del mio gruppo. Questo mi spinge a continuare in questo campo”.
 
 
Sitografia
 
Sul caso Samira al-Nuaimy:
 
 
Sul caso Mariam al-Mansouri:
 

mercoledì 26 febbraio 2014

“L’Arte di Dimenticare” di Ahlam Mosteghanemi

“Non un manifesto femminista, ma un rendiconto a firma femminile contro il machismo e in difesa dell’uomo, quell’essere che seduce e di fronte al cui fascino siamo orgogliose di cedere. Perché senza di lui non saremmo né femmine né donne”. 
Tratto dal libro “L’Arte di Dimenticare” di Ahlam Mosteghanemi 

Oggi vorrei proporvi un libro molto particolare, scritto da una delle voci più importanti e potenti del mondo arabo: l’algerina Ahlam Mosteghanemi. L’autrice non ha bisogno di presentazioni; riconosciuta come la più famosa romanziera arabofona del mondo, vanta più di un milione di fans su Facebook ed è la prima scrittrice algerina i cui lavori sono stati tradotti in inglese.

La copertina dell'edizione originale araba
Nel libro “L’Arte di Dimenticare” la Mosteghanemi insegna alle donne, non solo arabe, come dimenticare un uomo che le ha fatte soffrire. Non è strano che una donna araba parli di un argomento simile, al contrario: i suoi illuminanti consigli, frutto di riflessioni ed esperienze dirette e indirette e nati nella quotidianità araba possono essere applicati dalle donne di tutto il mondo, proprio perché l’amore, come la sofferenza, non ha nazionalità, né religione.

Il sottotitolo del volume indica fin da subito la traccia seguita dall’autrice per sviluppare l’argomento: “Amalo come sai fare tu, dimenticalo come farebbe lui”. Poche parole da cui affiora il piglio deciso, diretto, senza fronzoli con cui la Mosteghanemi cerca di spronare le lettrici a riprendere in mano la vita che, in nome del sentimento più sconvolgente e profondo che esista, hanno regalato all’uomo sbagliato. 

Attraverso la suddivisione precisa in capitoli con l’inserimento ad hoc di citazioni e poesie sue o di altri autori, o di detti popolari, l’autrice si propone di trattare in maniera rigorosa, quasi scientifica, ma nello stesso tempo leggera (non superficiale) e ironica il mal d’amore che, prima o poi, affligge tutte le donne della Terra. Le parole-chiave del saggio sono: amore, passione, attesa, oblio, cambiamento. L’ordine non è casuale. 

Tutto, infatti, inizia con il turbamento, le famose “farfalle nello stomaco”, quella sorta di sobbalzo che scatena nelle donne, come negli uomini, la prima fase di innamoramento acuto. Amore e passione si fondono, creando il sogno e l’idillio, scrivendo a caratteri d’oro nelle vite di ciascuno le parole fatidiche, “per sempre”

O, almeno, finché qualcosa non va storto. Le cose, si sa, possono cambiare; litigi, tradimenti, silenzi prolungati da parte dell’uomo possono gettare la donna nella più cupa angoscia e nello sconforto più profondo. Qui inizia la fase più delicata per la coppia che oscilla tra l’amore e la separazione. 

La donna, infatti, attende, spera e si dispera, non vuole saperne di dimenticare, quasi i ricordi di quell’amore siano tutto ciò che le rimane, l’unico appiglio per sopravvivere. Non a caso la copertina dell’edizione italiana del libro reca l’immagine di un pesce e, sopra, la scritta: “La memoria di un pesce oscilla tra i cinque e gli otto secondi. La fedeltà delle donne verso il passato è patologica”. 

Secondo Ahlam Mosteghanemi gli uomini sanno dimenticare prima e meglio, riescono a lasciarsi alle spalle il passato, a recidere i legami con ciò che non vogliono. Le donne, invece, cercano la fiaba, il sogno, il principe azzurro perfetto, romantico e condottiero, fiero ma tenero, determinato ma generoso, risoluto nelle cose della vita eppure tenero e fragile nelle cose dell’amore. Insomma, forse le donne cercano qualcosa che non esiste nella realtà, un ideale che fa prendere loro cantonate pazzesche da cui si risollevano dopo mesi, se non anni. 

La realtà, invece, è fatta di uomini che spariscono, talvolta pavidi o, semplicemente, non più innamorati come il primo giorno. Alcuni si comportano con serietà, ammettendo debolezze ed errori, altri no. Questi ultimi, di cui parla la Mosteghanemi nel suo libro, preferiscono tenere la loro ex compagna “in sospeso”, in una sorta di limbo, di “harem psicologico” di cui sono ancora i padroni. O meglio, credono di esserlo. 

Molte donne non sanno, o fanno finta di non sapere, che la chiave per liberarsi dalla prigione dei ricordi, dell’attesa e dei sospiri della tristezza è proprio nelle loro mani. E’ la chiave dell’oblio. Chiedersi perché le donne, talvolta, facciano finta o non si rendano conto di potersi salvare da sole da situazioni simili, o spiegare per quale motivo uomini e donne utilizzino determinati schemi comportamentali sono argomenti di studio molto complessi e su cui esiste una vasta letteratura. 

La Mosteghanemi spiega la sua interpretazione dei fatti attraverso l’osservazione diretta del mondo e delle persone, ricavando una verità difficile ma necessaria per scatenare il cambiamento e l’oblio: le donne hanno un senso della fedeltà e dell’attaccamento così profondo da risultare vincolante e perfino asfissiante in certi casi. 

L’unico modo per rompere le catene è dimenticare. Non è facile, l’autrice lo chiarisce subito e, descrivendo situazioni e stati d’animo, aiuta le lettrici accompagnandole, anzi, guidandole passo passo verso l’uscita dalla loro prigione.

Si tratta di una rivoluzione esistenziale che prevede di cancellare dalla mente e dal cuore, con buon senso e intelligenza, l’immagine dell’uomo che ha procurato sofferenza. Sembra strano dover usare la riflessione con l’amore, che poco ha a che fare con la logica. Eppure è proprio ragionando, pensando a se stesse e per se stesse che le donne possono sperare di recuperare l’indipendenza perduta.

Tutti i consigli dell’autrice sono validi, ma bisogna prendere consapevolezza del dolore, dello smarrimento e del tempo che vola via, inesorabile, in vana attesa di colui che non tornerà, per prendere lo slancio verso il futuro e una nuova vita fatta di serenità accanto all’uomo giusto.

Sembra strano che un’autrice araba affronti con tale spigliatezza un argomento così spinoso? In realtà non c’è nulla di anomalo; non solo, infatti, le donne arabe amano e soffrono come le occidentali e questo si è già detto, ma l’immagine stereotipata della odalisca da harem, sottomessa al suo signore, non è e non può diventare l’unico modo di immaginare le donne arabe. 

Questo saggio ironico, elegante, illuminante, la fierezza, la cultura e l’indipendenza di Ahlam Mosteghanemi, la sua conoscenza della vita, dei sentimenti e del cuore di uomini e donne, rendono tutte le sue opere intense e imperdibili. 

Di più “L’Arte di Dimenticaredovrebbe essere letto anche dagli uomini (arabi e non), poiché contiene interessanti verità sul modo di amare degli esseri umani, seppur nelle sue differenze di genere. 

Verità che, alcune volte, vengono dimenticate, magari in nome di un amore sbagliato che si ritiene, invece, eterno o del timore di ammettere paure che guasterebbero un’immagine di sé perfetta solo in apparenza.

Nessun cliché nel libro di Ahlam Mosteghanemi, solo la consapevolezza di quanto amare e dimenticare siano un’arte, le due facce di una stessa medaglia, quella dell’essere vivi, umani e profondamente complicati. 


Il Libro 

Titolo: L’Arte di dimenticare 

Autore: Ahlam Mosteghanemi 

Traduzione: Camilla Albanese 

Casa Editrice: Sonzogno 

Pagine: 239 

Data di Pubblicazione: aprile 2013

Prezzo: 16,50

Titolo Originale: Nissian 

Casa editrice edizione araba: Dar al-Adab 


Sinossi 

Quando una donna viene lasciata, tanto più se di punto in bianco, le ambasce del cuore possono travolgerla e spingerla a entrare nel tortuoso tunnel delle supposizioni, delle attese spasmodiche - più o meno sensate - di un segnale, magari nella speranza che non sia proprio l'ultimo e che lui ritorni. Ma così non va. C'è una cosa che le donne dovrebbero imparare dagli uomini, e cioè l'arte di dimenticare. Nessuno ci insegna come si fa ad amare, a evitare di essere infelici, a dimenticare, a spezzare le lancette dell'orologio dell'amore. Come si fa a non tormentarci, a lottare contro la tirannia delle piccole cose, a neutralizzare il complotto dei ricordi e ignorare un telefono che resta muto. Esiste qualcuno che, mentre siamo lì a singhiozzare per un torto d'amore, ci dice che un giorno rideremo di quella stessa cosa che oggi ci fa piangere? Attraverso le confidenze di amiche e conoscenti, proverbi e una ricchissima raccolta di aforismi di personaggi famosi - poeti, scrittori, filosofi arabi e non - questo libro è una sapiente e gustosa raccolta di pillole di saggezza per prendere le distanze da una storia finita e creare i presupposti per una nuova. 


L’Autrice

Ahlam Mosteghanemi, algerina, è nata nel 1953 a Tunisi e attualmente vive a Beirut. Personaggio di spicco della letteratura e del panorama mediatico arabo è una delle autrici più lette fin dalla pubblicazione del suo best-seller “La Memoria del Corpo”, vincitore del Naguib Mahfouz Medal for Literature. 


Per saperne di più

Il sito web di Ahlam Mosteghanemi.


I nuovi post

Dopo una lunga pausa, dovuta a motivi di studio e di lavoro, il blog "La Mano di Fatima" torna attivo. 
La vita e gli impegni mi hanno portato via per un po', tra specializzazione, scrittura di romanzi e racconti, ma il blog non si è mai davvero fermato: l'entusiasmo, la ricerca e le letture sul mondo arabo sono continuate e, da oggi, i frutti del lavoro tornano in questo spazio. 
Grazie.

venerdì 18 ottobre 2013

Anteprima di “La Concubina del Sultano” di Jane Johnson

Un romanzo storico da non perdere, incentrato sulla figura di Moulay Ismail, di cui abbia già parlato, su Meknès, la città che il sovrano voleva fosse ricordata come la “Versailles d’Oriente” e su due donne agli antipodi: Alys Swann, gentildonna inglese prigioniera nell’harem del sultano e Zidana, intrigante e malvagia moglie di quest’ultimo. 
Prestissimo ne riparleremo


Il Libro

Titolo: La Concubina del Sultano 

Autore: Jane Johnson 

Casa Editrice: Longanesi 

Pagine: 412 

Anno di pubblicazione: 10 ottobre 2013 

Prezzo: 12,90 euro 






Sinossi

Marocco, 1677. Dietro le magnifiche mura e gli archi imponenti del palazzo di Meknes, vive il sultano Moulay Ismail con il suo harem, in cui innumerevoli schiavi custodiscono le sue mille concubine. A sovrintendere a quell’universo femminile è la moglie Zidana, una donna astuta e crudele, ossessionata dal timore che i figli di altre concubine possano scavalcare i suoi rampolli nella successione al trono. Ed è proprio in questo spazio fuori dal mondo e dal tempo, eppure così saturo di odio e di intrighi, che Alys Swann, una giovane gentildonna inglese catturata dai corsari e destinata all’harem del sultano, incontra lo schiavo nero Nus-Nus, figlio di un piccolo re di una tribù africana. Tra i due prigionieri, che non possono nutrire alcuna speranza di libertà, nasce un sentimento fortissimo: lui la desidera in silenzio con una forza di cui non si credeva capace. Sarà l’odio implacabile che Zidana nutre per Alys, divenuta ben presto la favorita del sultano e soprannominata Cigno bianco, a mettere alla prova il loro legame: minacciata dall’imperatrice, Alys affiderà a Nus-Nus quanto ha di più prezioso al mondo... 


Per saperne di più 

La scheda del libro sul sito della casa editrice Longanesi.
 
Il sito dell'autrice


L’autrice

Foto tratta dal sito  del Daily Mail
Jane Johnson è nata in Cornovaglia e ha lavorato per vent’anni nel mondo dei libri. Ha curato come editor le opere di Tolkien, collaborando alla realizzazione del film Il Signore degli anelli. La svolta della sua vita, professionale e sentimentale, è avvenuta durante un viaggio in Marocco, dove si trovava a condurre alcune ricerche per Il decimo dono: dopo essere scampata a una pericolosa disavventura, Jane ha conosciuto l’uomo che è poi diventato suo marito. Oggi risiede tra la Cornovaglia e il Marocco.